
Un continente più che una nazione. Distanze enormi e spazi di cui non si vede la fine. Il tutto riempito di gente bassa, con gli occhi un po’ tirati verso le tempie. Sopra: un cielo grigio di smog e di umidità. Sotto: chilometri di strade da percorrere. In aereo, in nave, in treno, in autobus, in risciò, in tram, in ovovia, in bicicletta, in cremagliera, in una barca di bamboo, imbracati appesi a un cavo, strisciando in una grotta, e soprattutto: camminando. Fino a che i piedi fanno quasi male, e gli occhi non ne possono più di guardare. Immagazzinare ricordi che riaffioreranno in momenti impensati, quando avremo a che fare con qualcosa di cinese. Praticamente ogni giorno.
Ricordi di cibo speziato, di zuppe con tofu, di piccioni e tartarughe, di spiedini di scorpione, di carne di yak, di burro fuso, di tè a litri e di pesce fritto, di spaghetti di riso e di riso in bianco. Ricordi che diventeranno quasi piacevoli, una volta lontani, o resi leggermente brilli da una birra leggera con il nome scritto in cinese.
Ricordi di persone incontrate per strada, gocce nell’oceano di gente cinese, spesso maleducati, spocchiosi e irritanti, senza voglia di comunicare, senza voglia di raccontarsi, ma a volte speciali, con l’inglese buffo di chi non pronuncia la “r” come nei cartoni animati o nelle caricature degli asiatici alla tv, con il desiderio di farti amare la propria nazione, con le sue contraddizioni e i suoi pregi, o forse soltanto con il desiderio di venderti qualcosa. Un orologio forse, o una borsa, o una penna, o una polo. Tutto finto. Tutto come perfetto, in superficie. Ma se vai a guardare meglio… gli orli si scuciono e gli orologi ritardano.
Tic Tac. Tic Tac. Tic Tac.
Il tempo scorre veloce e un mese di viaggio vola come fosse un weekend un po’ più lungo, ed è già ora di ricominciare la quotidianità.
Tic Tac.
Tac Tic.
Ritorno alla partenza.
Pechino: le facce di Mao ormai più sui souvenir che per le strade, operai che lavorano come soldati e soldati che lavorano come operai, una fila interminabile per vedere una salma di cera, un muro interminabile per coprire la città che non si vuole far vedere e che vediamo, la città che non è proibita ma nemmeno consigliata, con le strade strette e la puzza di piscio. La grande grande muraglia. Grande fino a dove finisce lo sguardo e inizia la foschia. Attorcigliata sulle montagne come fosse un dragone che dorme e aspetta. Come tutta la Cina: una nazione che aspetta. Aspetta un cambiamento che le rivoluzioni la vita. E che non tarderà ad arrivare.
Tic Tac.
Templi, sculture di roccia, lanterne rosse e profumo d’incenso. Strade deserte, strade stracolme, lanterne rosse e profumo d’incenso. Dovunque ti giri: lanterne rosse e profumo d’incenso. A proteggerti dal sole: tetti di pagode, a proteggerti dal male: collane ed amuleti.
Tic Tac.
Decine, centinaia, migliaia di soldati. Immobili come un esercito che si rifiuta di combattere ma che non ha paura di farlo. Un esercito di difesa, un esercito da far paura. Tutto finto, come le borse di Fendi. Terracotta. Un gioco di domino: ne spingi una e cadono tutte. E Xian scompare, rientrando nell’anonimato di una cittadina che rifiuta il passato per sentirsi più moderna, ma dal passato soltanto trova un motivo per presentarsi al mondo.
Tic Tac.
Ci allontaniamo da tutto.
Tic Tac.
Le orecchie si tappano per l’altitudine. Le narici si storcono per l’odore acro.
Tic Tac.
A Xia’he, sede del monastero tibetano Labrang, la sveglia suona prima dell’alba per sentire le preghiere dei monaci. E nel buio riconosci le sagome rosse e le teste calve. Nell’aria la puzza del burro di yak che brucia nelle candele. E il profumo d’incenso scompare. Gira, gira, gira attorno al tempio, e mentre giri fai girare la tua preghiera. Come fosse un orologio.
Tic Tac.
Persone dagli sguardi curiosi, occhi a mandorla che guardano occhi azzurri come per fare una domanda. Sulla diversità. La nostra e la loro. La cosa più bella.
Tic Tac.
Turismo che prende spazi alla natura, da essa alimentato. Pinnacoli che si alzano dal fiume coprendosi di verde. Ma i rumori di mille scarpe non riescono a coprire il silenzio dell’acqua che scorre lenta. E’ Guilin, una delle città più pittoresche di tutta la nazione.
Tic Tac.
Capelli lunghi abbandonati fino ai piedi e oltre, a bagnarsi nell’acqua che dà la vita. Ad una pianta e ad un popolo, su terrazze verdi di riso maturo. Camminare fino a farsi male, solo per il gusto di farlo. E non nutrirsi solo di riso, tra le etnie Yao a Longji.
Tic Tac.
La città ci divora, ci mastica, ci scombussola e ci caca fuori. La vista di Hong Kong ci spiazza sia dall’alto che dal basso, le vie piene di luci ci fanno girare, il pavimento acciottolato di Macau ci fa scivolare in anticipo verso casa, e i negozi di Shangai ci risucchiano come calamite. Calamite rotonde che lanci in aria per fare il rumore del grillo. Grrrrrrrrr. E’ il gioco del momento qui, e scivola tra le mani di tutti i bambini. L’innaturale che ricrea il naturale che non c’è più. Il destino di questo continente in corsa verso la modernità, dove tutto quello che è antico sembra finto. E probabilmente lo è.
Tic Tac. Tic Tac.
Un giorno di viaggio e siamo già nei nostri uffici.
Tic Tac.
Contando il tempo su un orologio che va sempre un po’ indietro.
Tic Tac Tac.
Già con la testa verso il prossimo viaggio, ma con un pezzo di cuore lasciato là, tra gli sputi dei cinesi e l’odore forte di cipolla e aglio. Lo stesso del ristorante cantonese sotto casa, solo più buono.
Posted on 24 giugno 2011
0