
Remota, inaccessibile, lontana, misteriosa. Timbuctu è nel mio immaginario da molto tempo prima di incontrarla, è il luogo che credevo più inarrivabile, uno dei posti dove che non avrei mai visitato. Ero bambino e Timbuctu era la città dove rischiavano di finire gli Aristogatti, da adolescente era meta di esploratori e serbatoio di cultura, crescendo risplendeva pallida negli eco di sommosse tuareg, guerre civili infinite e spazi pericolosi.
Timbuctu è l’unico luogo che ho visitato nel mondo dove la polizia locale timbra il passaporto con la data e il bel nome di Tomboctou a segnalare che sì, ci sei stato davvero. Addirittura sembra che ci sia un circolo esclusivo americano che abbia come unica clausola per diventare degli affiliati questo timbro rosso sbiadito stampato in un buio ufficio ricoperto da poster anni ’80.
In molti arrivano in questo luogo sperduto alle porte del deserto con l’aereo che a singhiozzi collega i tuareg con la capitale. Noi ci siamo arrivati alla vecchia maniera, attraverso il Sahel, con un 4×4.
L’ultimo villaggio prima di Timbuctu è Douentza, un agglomerato di lamiere e fango sbattuto dai venti a nord della scarpata di Bandiagara. Al nostro passaggio la macchina viene avvolta da un nugolo di venditori di cibo e acqua: da qui fino a Timbuctu non ci sono villaggi, solo qualche casupola di contadini particolarmente ostili ai contatti con il resto della popolazione.
La strada è sterrata e ricca di buche, spesso occorre uscire dalla carreggiata per trovare un terreno meno dissestato. Qua e là il percorso è interrotto da pozze d’acqua, residui di grandi piogge. Il pranzo lo consumiamo all’ombra di un piccolo arbusto, accanto a noi la carcassa rinsecchita di uno zebù morto, monito della dura vita nel territorio. Il viaggio dura otto ore. Il verde lascia spazio al giallo e l’aria diventa sempre meno umida.
Fino ad arrivare al Niger: per attraversare il letto principale del fiume occorre un traghetto, un vecchio traghetto di ferro che carica poche auto alla volta. Poi ci sono i canali secondari, da attraversare nei punti più bassi: al ritorno, dopo una giornata di pioggia vicino alla sorgente, ci metteremo due ore prima di trovare un possibile accesso.
Attraversato il fiume ecco, a poco a poco, il deserto. Prima solo mucchi di sabbia, poi piccole distese, poi a perdita d’occhio.
Timbuctu è accecante con il sole alto nel cielo e le costruzioni chiare di fango e sabbia. La popolazione sembra meno cordiale: le asperità del luogo e la lunga solitudine devono aver reso queste popolazioni diffidenti e distaccate.
La maggiorana della popolazione è composta da tuareg, anche se ormai si sono stabilite qui persone di etnie differenti. I tuareg, come è noto, vivono prevalentemente nel deserto, sono nomadi e sono conosciuti, oltre che per i turbanti colorati con l’indaco che lascia loro la pelle sfumata di blu, per essere i principali commercianti di sale del west africa. Le miniere sono nel nord del paese, a Taudenni, lì i tuareg passano la stagione secca a scavare sotto terra (fino a pochi anni fa usavano gli schiavi, ora hanno degli operai) per estrarre il sale che viene tagliato in lastre e caricato sui cammelli: 4 grandi lastre per ogni cammello. Finito il periodo di estrazione i tuareg si muovono in carovane verso sud con i cammelli ,attraverso un percorso che dura settimane, a ritmi di 15/18 ore di viaggio al giorno. Il sale arriva a quel punto a Timbuctu e da qui viene imbarcato lungo il fiume fino a Mopti, qualche giorni di navigazione più a valle, dove verrà smerciato in tutto il West Africa.
In questa stagione i Tuareg si riposano, accampati fuori dalla città (qualcuno anche tra le case di fango), non troppo lontano dal loro amato deserto.
“Nel deserto si sta sempre bene, nella città no” mi dice Osman, guida tuareg improvvisata, “ma forse è solo perché io conosco solo il deserto”.
Il tramonto colora tutto di giallo e le dune si popolano di persone che fanno ritorno nei loro accampamenti a piedi. Accompagniamo con la nostra jeep un signore il cui turbante che copre il viso non mi permette di stabilire l’età con precisione, ma avrà almeno 75 anni. Il suo campo, con i figli e i nipoti, è qualche chilometro all’interno del deserto, in prossimità di un vecchio pozzo, attorno al quale i montoni pascolano la poca erba presente. In un angolo una bambina sta preparando la cena, gli altri oziano chiacchierando tra di loro. Ci offrono il tè mentre il capo villaggio ci racconta della sua famiglia. Con due cammelli facciamo un giro sulle dune e quando torniamo il campo è popolato di persone che non avevamo visto prima, tutte pronte a proporci gioielli, catenine e altri ammennicoli tuareg. Di turisti qui non ne passano molti, come in generale in Mali: dopo un incidente diplomatico risalente ad un paio di anni fa con la Francia, quando un turista rapito da Al Qaeda fu liberato solo dopo il rilascio di 15 terroristi islamici detenuti dal governo di Bamako, la Francia ha dichiarato il Mali, e in particolare la zona di Timbuctu, pericolosa per il turismo. E anche le agenzie italiane sconsigliano viaggi nella regione, seppur, a nostro avviso, senza motivo. In tutta la città di Timbuktu in quel momento eravamo solo tre turisti: noi due e un ragazzo americano.
La visita della città si rivela una delle più interessanti di tutto il Mali: la città vecchia, fatta di fango, è piccola e facilmente visitabile a piedi, le strade sono troppo strette per le automobili ma del resto la maggior parte delle persone utilizza qui asini o cammelli. Le tre moschee di fango sono affascinanti nelle forme sinuose, levigate da mani esperte, e le travi di legno che spuntano lungo le pareti dei minareti le rendono quasi un’opera d’arte contemporanea. E poi ci sono i libri: nel medioevo Timbuctu era il centro della cultura islamica e sede di importantissime biblioteche, oggi di quello splendore culturale resta ben poco. Libri e manoscritti sono conservati in alcuni centri di studio e le uniche scuole rimaste sono le Mederse, le scuole coraniche, che accolgono giovani che imparano, copiandole, le sacre scritture. Il museo è polveroso e malmesso, a parte qualche vecchia fotografia e suppellettili pieni di polvere e ragnatele non c’è molto. Da segnalare le case degli esploratori che nell’800 partirono dall’Europa per riportare notizie di questa mitica città di cui non si avevano notizie ma soltanto leggende. In molti morirono prima di arrivarci, qualcuno vi giunse senza poi riuscire a farne ritorno, Caillè, nel 1828, vi arrivò, vi soggiornò, e riuscì a riportare in patria disegni e descrizioni: dai suoi racconti la città non è molto dissimile dalla Timbuctu odierna.
Dopo due giornate intense lasciamo la città all’alba, quando il sole ancora non ha illuminato i tetti e le stradine di fango. Partire in questa maniera, quasi alla chetichella, scivolando con la jeep tra strade piene di gente che dorme fuori dall’uscio, per sopperire con l’aria aperta il calore eccessivo delle notti d’agosto, ecco, partire così, forse è più facile. Lasciare Timbuctu di giorno, con la macchina inseguita da bambini che salutano con la mano, con gli occhi delle persone che sorridono attraverso i turbanti, felici per averti ospitato nella loro terra sarebbe stato più difficile.
Altre tappe del viaggio in Africa
In Senegal: Dakar, Isle de Goree, Lago Rosa, Saint Louis, Langue de Barbarie, Touba, Joal Fadiouth.
In Mali: Bamako, Djenne, Timbuktu, Segou, Pays Dogon, Mopti.
Jere
24 aprile 2013
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