
Il sole colora tutto di rosso e rosa. Qua e là di giallo, ma a predominare è sempre l’ocra nella luce e il marrone nelle ombre.
Il cammello procede lento e silenzioso nel deserto, ovunque mi giri vedo solo sabbia lentamente spostata dal vento. Oscillo alto sopra le dune, le scavalco e le scalo, penetrando sempre più nell’interno. Percezione di pace, sensazione di buono.
Lasciamo i cammelli in una valle tra due dune, poco più sotto quattro ragazzi berberi hanno montato un accampamento con dei pali e dei teli. Al centro dei tappeti e un tavolino basso, dietro un fuoco per cucinare: siamo nel mezzo del deserto di Erg Chebbi, a Merzouga, nella parte est del Marocco, al confine con l’Algeria.
Mi arrampico sulla duna più alta per dominare il paesaggio. Mi sento di governare il mondo e mi viene voglia di volare. Accenno anche un decollo, con le braccia aperte, ma il vento non mi spinge. Per ora.
I piedi ora affondano nella sabbia soffice, ora resistono sorretti da quella schiacciata dal vento. Il mio peso lascia impronte troppo visibili in un paesaggio incontaminato: poche ore però e saranno scomparse anche loro, e del mio movimento non ci sarà traccia. Il deserto ingoia tutto e si rinnova ogni minuto, cancellando qualsiasi cosa, come l’oceano, ovunque diverso ma sempre identico.
L’istante dopo mi lascio cadere rotolando dalla duna verso valle. Mano a mano che prendo velocità mi sento sempre più preda del deserto. Atterro, riprendo l’equilibrio, risalgo e corro giù, a grandi balzi verso la vallata. Mi viene voglia di urlare. Lo faccio. Risalgo di nuovo e questa volta in silenzio aspetto il tramonto, mentre la luna è già alta nel cielo, ma ancora sbiadita. Se mi sdraio sento il vento pieno di sabbia che mi accarezza e mi scavalca, scavalca anche la duna e un po’ la sposta, disegnando su di essa delle striature parallele, come fosse il corpo di un animale. Ceniamo con il sole ormai oltre le dune, e dopo il cous cous dobbiamo accendere una candela per poter vedere qualcosa nel tajine di terracotta che abbiamo davanti.
Dopo cena mi allontano percorrendo le creste delle dune. Attorno a me solo buio e deserto, eppure sembra giorno. La luna è quasi piena e la sabbia riflette la luce. Mano a mano i miei occhi si abituano all’oscurità e alla solitudine. Contemplo la pace in silenzio. Accarezzo la sabbia calda ancora del sole: è morbida e vellutata come il ventre di una donna. La sfioro piano. Ci immergo le dita. Ritraggo la mano. Mi ci sdraio sopra, chiudo gli occhi e mi ci perdo. Potrei rimanere qui tuta la notte. Con gli occhi chiusi sento anche il rumore del vento che leggero ma deciso mi rotola accanto. Come un fischio che copre gli altri rumori. Ma gli altri rumori non ci sono. E anche i miei passi sono silenziosi.
La notte la passo sdraiato su un tappeto guardando il cielo troppo chiaro per avere le stelle, anche se qualcuna c’è che mi spia. E così mi copro meglio con le coperte di pelo di cammello.
Dormo e sogno.
La sveglia è gelida e ha gli occhi pieni di sabbia. Sono le cinque e trenta e il sole sta per albeggiare.
Eccomi di nuovo sulla duna, eccomi di nuovo ad accarezzare la sabbia che questa volta e fredda, eccomi di nuovo a pensare. Sulla sabbia sono disegnati piccoli ghirigori effimeri come la mia presenza qui e nel mondo. Sono le impronte degli insetti del deserto.
Con le mani faccio come una clessidra, e mi perdo in ogni granello che mi scivola dal palmo. Sto da Dio.
Posted on 13 ottobre 2011
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