Tempesta alle Isole Aran

Posted on 15 ottobre 2011

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Dicono che sia la parte più selvaggia d’Irlanda. Una roccaforte di valori, cultura e lingua vecchia di cento anni. Gaelica. Nella mia testa è solo un nome, sentito molte volte, evocante: Isole Aran. Scopro per caso che un’amica che non vedo da tempo è andata a vivere lì, è uno dei pochi estranei che si sono insediati tra gli ottocento abitanti di Inis More, l’isola principale dell’arcipelago.

Attraverso la nazione, da Dublino fino a Galway. E da lì il giorno dopo mi dirigo al porto da cui salperà la nave per l’inconsueto e il selvaggio. Ci aspetta la bufera. Quella che inonda il finestrino e i tergicristalli non riescono a fermarla nemmeno quei pochi istanti che ti permettono di guardare oltre. Vento. Al porto saliamo sulla piccola nave che in meno di un’ora ci porta all’isola, un viaggio difficile, tempestoso, sublime. Il progetto è dormire una notte in un bed and breakfast gestito da una famiglia locale, fare un giro in bicicletta, leggere qualche poesia di Yeats sulle scogliere. Godersi il niente. Ma se il niente è riempito dalla pioggia, tanta pioggia, non è più affascinante, diventa faticoso. Arriviamo al porto di Inishmore con i maglioni di lana e le cerate con il cappuccio (è agosto!). La mia amica ci aspetta al molo, con la bicicletta e i sandali, completamente fradicia di pioggia. “Ma qui sono abituati”, dice, e lei con loro. Ci infiliamo in un localino a bere un caffè e mangiare una fetta di apple pie ai chiodi di garofano. Ci racconta dell’isola, delle sue tradizioni, di perché la gente lascia quel posto (non c’è futuro) e di perché molte altre ci arrivano alla ricerca di una vita semplice, come ha fatto lei, che ora lavora in un negozio che vende maglioni ai turisti. I maglioni delle Isole Aran, famosi in tutto il mondo, di lana grossa e bianca, annodati con motivi diversi da famiglia a famiglia, un po’ sformati e caldi da morire. Abbandoniamo l’idea delle biciclette, sarebbe inutile e non riusciremmo a goderci niente. Così prendiamo un piccolo bus per turisti che ci fa fare un giro per l’unica strada dell’isola, fino al forte di Dun Aengus, una costruzione semicircolare, risalente alla preistoria, a picco su delle scogliere senza protezione da cui ci sporgiamo pericolosamente, considerando anche il vento e la pioggia. Ma lo spettacolo è fenomenale. Tutt’attorno ecco i muretti a secco di cui parlano tutte le guide turistiche. Qui, si dice, gli isolani hanno creato la terra: non avendo terreno coltivabile, hanno isolato dei pezzi di scogliera con dei muri a secco (bucati per non farli abbattere dal vento) che trattenessero sabbia, alghe, rifiuti, letame e tutto quello che poteva diventare terra per le coltivazioni. Impressionante. Mentre torniamo alla nave, abbandonando l’idea di dormire lì a causa del diluvio, con i piedi zuppi, i pantaloni fradici e le mutande bagnate, sento proprio che mi sto perdendo qualcosa. Prometto di tornarci, ma probabilmente non accadrà mai. O forse sì.

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