
L’arrivo ad Haridwar toglie il fiato. Per il caos, per la confusione, per l’incertezza della strada, per la paura di ritrovarsi in quella piazza l’unico occidentale in mezzo ad un milione di persone che ti guardano male. E mi ci vorrà poco per scoprire che in tutta la città i turisti si contano sulla punta delle dita, e per la maggior parte si tratta di personaggi inquietanti, come quei due francesi addobbati come un albero di natale che mi si sono avvicinati salutandomi con un “Namaste” (nessun indiano me l’ha mai detto) e unendo le mani in segno di preghiera, come in un film sui figli dei fiori. Volevano un’informazione. E con tutti gli indiani che riempivano la strada interpellavano me, appena sceso dal treno e con ancora lo saino in spalla.
La mia guest house è dall’altra parte della città e ci metto mezz’ora a piedi a raggiungerla. Arrivo e tolgo lo zaino ritrovandomi la maglietta fradicia davanti e dietro. La camera è una piccola capanna di legno e bambù costruita proprio sulla riva della sacra Ganga. il Gange. Peccato che io non sia il solo abitante: assieme a me abitano due lucertole enormi, qualche ragno e un paio di insetti non identificati. L’acqua calda non c’è naturalmente, ma almeno c’è l’aria condizionata. E la vista fuori dalla porta è impagabile: il fiume marrone scorre piano accarezzando le gambe di un gruppo di ragazzi che chiacchiera con i piedi a mollo.
Haridwar è una città sacra per gli Hindu in quanto qui il Gange scende dalle montagne e inizia il suo viaggio in pianura. In più si dice che qui Shiva abbia lasciato una sua impronta sulla roccia. Così le strade brulicano di famiglie in gita religiosa, pellegrini giunti a piedi, fedeli e Sadhu di tutti i tipi. Ognuno è attrezzato per la preghiera, con il bindi tra gli occhi, le maglie arancioni, il colore della fede, collane votive e spiccioli da donare a chiunque ne chieda. Con la funicolare salgo sopra un piccolo monte. L’abitacolo traballa, mi sembra vada troppo veloce, ma forse è solo il terrore che leggevo nel bambino che avevo seduto di fronte nella piccola cabina.
Arrivato in cima vengo assalito, io come gli altri, qui non c’è distinzione di razza, da venditori di souvenir religiosi. Compro un piccolo Ganesh dorato per poche rupie. Ganesh è il protettore degli scrittori e in più è a lui che si fa voto prima di intraprendere un viaggio. Un po’ come San Cristoforo…
Arrivato al tempio devo lasciare le scarpe fuori ma ha appena finito di piovigginare e tutto il pavimento ètotalmente imbrattato di fango. Tolgo scarpe e calze e procedo in quella melma. E mentre mi sporco i piedi mi sporco un po’ la coscienza, perché penso che un po’ mi fa schifo e chissà quante malattie e chissà i miei piedi poveretti… Ma di buono c’è che assieme alla coscienza mi sporco anche le mani. E una volta che le mani sono sporche non c’e’ più niente di cui preoccuparsi. La folla si accalca per gli stretti corridoi del tempio, facendo la fila davanti a delle piccole edicole con delle divinità piene di offerte votive. Un sacerdote segna di rosso la fronte di tutti quelli che lasciano un’offerta e poi li fa piegare dando loro una pacca sulla spalla. Si dice che venire in questo tempio porti fortuna e così si affollano tutti qui. Ognuno porta un nastro rosso da legare da qualche parte (il tempio ne è pieno) dei bindi da appiccicare sulle pareti, un cocco e del riso da donare alla divinità. Esco da questo labirinto pagano un po’ frastornato e penso che se la nostra fede vivesse un po’ di questo forse ci sarebbero più praticanti. Come sono salito scendo verso il Gange e vado verso il Ghat principale, la scalinata che porta al fiume, cuore di tutta la città. Qui vi si accede solo togliendo le scarpe oppure facendo il giro dall’altra parte. La corrente del fiume è impetuosa e marrone, così spessa che se uno ci immerge una mano questa non si vede. L’acqua è gonfia di cadaveri, sterco, sporcizia, rifiuti animali, umani e industriali, ma è il sacro Gange. E quindi la sua acqua è santa. Come fanno tutti compro una bottiglia trasparente con sopra il disegno dell’Om per raccogliere l’acqua e portarla a casa. In questa settimana c’è una festa particolare a da tutta la nazione la gente arriva ad Haridwar a piedi, dopo anche un mese di cammino, per recuperare l’acqua del Gange e riportarla al tempio del proprio paese per donarla al Dio. Il rito però non è valido se la bottiglia con l’acqua tocca la terra, e così sono in tanti a girare con un trabiccolo di legno pieno di colori che tenga l’acqua sempre sollevata, anche di notte.
Intanto attorno a me la gente prega e si immerge, e mentre prega gioca, si diverte, sapendo che niente può preoccuparli. A tutti aspetta la Moksa, la liberazione. Qualcuno avrà più rinascite, qualcuno meno, ma il sanmsara, il ciclo delle rinascite, prima o poi finirà. E si avrà la liberazione.
Intanto inizia a tramontare il sole e la gente si assiepa lungo la riva. Anche io mi siedo tra la melma, accanto a due famiglie eccitate per quello che sta per succedere:la Aarti, la benedizione del Gange. Quando scoccano le campane mi accorgo che dietro di me, che sono in prima fila con i piedi quasi nel fiume, ci sono migliaia di persone. Ognuna con in mano fiori o incenso, o frutti o qualcosa da donare al Gange. I quindici minuti successivi sono indimenticabili. Tutta la gente prega continuamente, ripetendo un mantra imparato da bambini, il fiume si popola di piccole candele poggiate su un letto di fiori, un’offerta al fiume. Chi è vicino all’acqua sguazza con le mani dentro di essa, bevendo e bagnandosi del Dio. Una specie di eucarestia. I sacerdoti accendono dei fuochi che fanno roteare e poi gettano in acqua, i bambini ridono felici, i malati e gli storpi pure. E anche tutti gli altri ridono.
Mentre la folla si disperde sono frastornato. Qui tutti credono nell’assoluto. E, come quando tutti credono in qualcosa che non hanno mai visto (che ne so, nell’esistenza del Polo Nord ad esempio, o dei dinosauri), un po’ storco il naso ma alla lunga va a finire che ci credo anche io.
Posted on 28 ottobre 2011
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