La salita al Monte Sinai

Posted on 3 dicembre 2011

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La sveglia suona presto per andare sul Monte Sinai: alle 23:00. E’ appena sceso il freddo sulla spiaggia di Dahab e già il pulmino passa a prenderci per attraversare la penisola verso l’interno. Dopo un paio d’ore arriviamo ai piedi del monte, poco lontani dal Monastero di Santa Caterina. Lì ci uniamo ad un gruppetto di quattro russi e due etiopi e incontriamo una ragazzetto con una quefia in testa: sarà lui la nostra guida per questa notte. Silenzioso, timido, giovanissimo, quasi un bimbo, si arrampica velocemente per poi fermarsi e guardare indietro se tutto va bene, e sorride. Ogni notte sale e scende dal monte accompagnando i turisti che vogliono provare un’esperienza unica, ormai diventata di massa. Fa molto freddo, siamo a oltre duemila metri sopra il livello del mare. Indosso due maglioni, un cappello di lana e una sciarpa che mi avvolge completamente. Le mani si raffreddano, così come il naso. Il buio avvolge tutto. La luna è solo uno spicchio, e non illumina. Solamente qualche bagliore che si riflette sulle rocce erose dal vento ci indica quali pietre sembrano più stabili. Camminiamo lungo la strada dei cammelli, una lunghissima strada che sale lentamente circondando il monte. Un passo, l’altro passo. Scivolo, mi fermo. A volte manca il fiato. La cima non si vede. Ogni tanto una luce: si vende caffè e tè caldo. L’ultimo pezzo è il più faticoso. Con tre ore di scalata nelle gambe affrontiamo gli ultimi settecento gradini che separano dalla vetta. Arriviamo in cima che siamo ancora pochissimi, ma se mi affaccio vedo nella valle tante piccole luci: sono le torce degli altri turisti che salgono sul monte. Ci sistemiamo su una roccia riparandoci dal vento, di fronte alla valle. Ci arrotoliamo nei sacchi a pelo coprendoci con coperte di lana di cammello che puzzano di mille utilizzi e animali. Il cielo è ancora nero, ma basterà poco per vedere la luce, in lontananza, arrampicarsi nel cielo, preannunciando il sole. Attorno a noi il monte si è popolato di gente infreddolita proveniente da tutto il mondo, al richiamo di storie, miti, leggende e fede. Come una novella Babilonia la cima si muove lenta e in attesa, raccolta attorno alla moschea e alla chiesa che da centinaia di anni imperano appaiate sul monte dove, secondo la Bibbia, Mosè ricevette le tavole della legge (Mosè, come Gesù del resto, è considerato un profeta dell’Islam).

Poi sempre più luce. Tanti colori, mille sfumature. Tutti in attesa.

Ed ecco. Accolto da un grido soffocato: il sole.

Scattano le macchine fotografiche, ci si stringe a chi si ama. Un momento molto emozionante che dura solo pochi istanti, velocemente il sole sale e illumina tutto, di una luce calda che immediatamente fa sciogliere sciarpe e levare cappelli. Per la prima volta vediamo il paesaggio che avevamo attraversato nero e buio. Spettacolare, una montagna di rocce marroni che sembrano morbide pieghe di stoffa. Scendiamo dall’altra strada: un ripidissimo sentiero che percorre uno wadi (un fiume secco) dritto fino al Monastero di Santa Caterina.

Arriviamo al Monastero che sono quasi le nove, lo visitiamo guardando le facce degli altri: tutti stanchi ma tutti felici, soddisfatti per aver ripagato la fatica con una vista memorabile. La chiesa copta è piena di fascino, ma gli occhi di tutti sono per il roveto ardente, quello che discende direttamente dalla pianta attraverso la quale si manifestò Dio a Mosè (secondo la leggenda, naturalmente).

Ritorniamo a Dahab addormentandoci sul pulmino, dopo una scalata nella notte che ricorderemo per sempre.

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