
La crociera sul Nilo è per molti italiani l’unica maniera pensabile per visitare l’Egitto. Assieme, naturalmente, alla settimana “all inclusive” a Sharm el Sheik. Per quanto mi riguarda la crociera sul Nilo è quanto di peggio possa immaginare per una vacanza che oltre a vacanza voglia essere anche un viaggio.
Eppure volevo navigarlo questo grande fiume, seguendo una tradizione che prosegue da centinaia di anni.
Un tempo si usava la Dahabiyya, barca a vela lussuosa, poi arrivarono i piroscafi e infine le navi da crociera con piscina e discoteca. Noi invece abbiamo optato per una piccola Feluca. Le Feluca è la barca tradizionale egiziana, costruita in legno, con un pescaggio ridotto al minimo e una altissima vela di lino che, opportunamente virata, permette la navigazione in entrambe le direzioni della corrente. Ci imbarchiamo da Aswan e conosciamo i due ragazzi, un capitano e un timoniere, che ci accompagneranno in quei due giorni. Il programma infatti prevede di navigare lungo il fiume per due giorni e due notti, risalendo verso nord, fino al tempio di Komb Ombo. I due non hanno nemmeno vent’anni, ma si vede che sul fiume ci sono cresciuti e vedono il fiume come la propria casa e la propria naturale dimensione di vita. Fin da subito la navigazione mostra la sua ricchezza e le sue difficoltà. La ricchezza di un panorama indescrivibile, godibile appieno grazie al lentissimo fluire della barca, grazie alla maneggevolezza del percorso, la vicinanza pressoché totale alla vita che scorre lungo il fiume, con gli animali che si abbeverano e i bimbi che giocano nell’acqua fresca. La difficoltà di un ritmo che non ci appartiene, fatto di minuti simili l’uno con l’altro e giornate che sembrano settimane, la difficoltà del relax che ti riempie fino a svuotarti.
Abituati a riempirci di tutto è difficile apprezzare la pienezza del niente.
Il senso di spaesamento dura però solo poche ore, poi ci abbandoniamo sulle assi di legno della feluca, nel silenzio e nella solitudine del fiume più lungo del mondo (escludendo la recente querelle con gli studiosi del Rio delle Amazzoni). La barca si muove come scivolando, procedendo a zig zag per poter sfruttare appieno la potenza del vento. E così sfioriamo ora questa riva, ora quell’altra, accompagnati dal rumore sordo delle corde della vela che si tirano attorno a legni vecchi di decenni, consumati dall’acqua e dalla vita. Ad un tratto c’è il deserto, al tratto dopo un campo coltivato. Ora un gruppo di case di fango, poco dopo un piccolo albergo per egiziani. A volte il sole scompare per colpa delle nuvole, altre è oscurato dall’ombra alta delle navi da crociera da cui esce odore di fritto e musica occiddentale. Noi ci trastulliamo nel non far niente avvolti dal profumo del cibo cucinato sulla barca. Sì perché in quei giorni abbiamo vissuto proprio sul fiume e del fiume. Per cucinare infatti attraccavamo su una spiaggia di sabbia gialla del deserto, lì si buttava a terra l’ancora e si accendeva il piccolo fornello da campo. Verdura, molti legumi, pollo da friggere. Da sotto la stiva il nostro giovane capitano estraeva gli ingredienti e si metteva a cucinare, usando per cuocere il riso l’acqua del Nilo, per lavare la verdura l’acqua del Nilo, per fare il caffè l’acqua del Nilo. Un po’ di reticenza, all’inizio, un po’ di paura di strane malattie e, soprattutto, di attacchi di diarrea non controllabili su una barca in mezzo al fiume. Il tutto durato pochi secondi. Poi, con la consueta incoscienza che ci accompagna in ogni viaggio, l’acqua del Nilo che ci trasportava ha iniziato anche a nutrirci e a dissetarci. Senza nessuna conseguenza. Per andare al bagno c’era tutto il mondo. Bastava allontanarsi un po’ dalla riva e portarsi dei fazzoletti. Stando ben attenti agli scorpioni e agli scarabei che popolano la sabbia lungo il Nilo… I denti li lavavamo dalla barca sputacchiando nel fiume, la faccia con qualche salviettina umidificata e un po’ di acqua naturale. Un paio di giorni in più e avremmo fatto il bagno nel Nilo. Per la notte ci fermavamo attraccando ad una spiaggia e il capitano si arrampicava lungo l’albero per chiudere la vela su sé stessa. Attorno alla feluca tiravamo in piedi dei teli, creando una piccola capanna con cui ci riparavamo dal freddo che comunque saliva dalle acque del fiume e penetrava attraverso i buchi del vecchio tessuto, arrivando fino a noi. Ma lo spettacolo delle luci dell’alba valeva qualsiasi freddo si potesse patire nella notte.
L’ultimo giorno lasciammo la feluca con un po’ di nostalgia, abituati ormai ai ritmi e al richiamo del fiume, salutati da un gruppo di vacche in fase di attraversamento. Salutammo il capitano che si era appena lavato nel fiume con tutta la sua galabiyya bianca che contrastava con il colore nubiano della sua pelle scura.
Fu molto meglio di una crociera.
Posted on 12 dicembre 2011
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