Varanasi tra la vita e la morte

Posted on 5 giugno 2012

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Prima c’e’la vita.

La vita del mercato islamico, sporco e disordinato (“Non chiedermi di mangiare in un ristorante islamico perché non ci metterei mai piede, sono sudici”, mi dice perentorio Nandan, il mio accompagnatore indiano) quella del mercato centrale, con la fila interminabile attorno al tempio per le cerimonie del lunedì, giorno sacro a Shiva, il dio distruttore cui è consacrata la città (ci si mette in fila dal sabato per assicurarsi di poter fare la puja, l’offerta al Dio).

La vita si respira in ogni strada, dove la gente si affolla da un negozio all’altro, compra e spende quel che può e quel che può regala ai mendicanti che sono numerosi più dei turisti, rari in questa stagione di caldo afoso. Storpi, vecchi, bambini, imbroglioni, sadhu, eremiti, pellegrini. Tutti con la mano allungata a cercare qualcosa da te. E dalle strade entriamo nei templi, numerosissimi e diversissimi l’uno dall’altro, tutti affollatissimi. C’è il tempio più antico, con un grande lago di fronte e le sculture sporche di fiori e offerte e polvere rossa, sacra per la religione. C’è il tempio moderno, nero e quasi fascista nella sua architettura marmorea, un enorme cilindro nero con una cupola nera per costruire una casa di Shiva a forma di Lingam, il sacro simbolo fallico onnipresente in città. C’è il tempio fatto di giochi, dove le statue sono automi che si muovono meccanicamente, comandati da corrente elettrica, e gli hindu pregano e fanno offerte e riconoscono le scene del Ramayana, il libro sacro che prima di partire ho studiato sommariamente. Storie mitiche di battaglie e tradimenti, amori e magie e preghiere. Qualcosa più vicino all’Iliade che non alla Bibbia. C’è il tempio Nepalese, di pietra nera a lucida, che raggiungiamo camminando sulle gradinate sommerse dal Gange, con i piedi tra i resti di una cremazione, in un’acqua da anni completamente settica, senza ossigeno. Il tempio nepalese è intimo nella sala delle offerte, con le sculture erotiche del kamasutra incise sul tetto. E la vita si vede lungo il fiume, sulle scalinate dove la gente fa il bagno rituale oppure si monda con shampoo e sapone o lava pentole e pentoloni, sciacqua mobili, pulisce vestiti, urina, defeca e sputa. Sono in molti anche a bere quest’acqua, come il rituale impone (“Da poco si è scoperto che ci sono tracce di erbe ayurvediche dall’Himalaya nell’acqua del Gange e la gente pensa che quindi faccia bene al corpo ancora di più, e la beve”).

A Varanasi la vita la si trova soprattutto la mattina e la sera, all’alba e al tramonto, quando si saluta il fiume che si risveglia in un Aarti personale (una benedizione del fiume) o al tramonto, quando su molti Ghat i Baba e altri sacerdoti tengono dei complessi rituali con incenso, fuoco, acqua, immagini sacre, campane e canti. Rimango a vedere l’Aarti serale sul Ghat principale con la bocca aperta, con gli hindu accanto a me che pregano e cantano. Uno spettacolo ancestrale, una forma di teatro antico e rituale, sempre uguale ma sempre necessario. Comunicativo e partecipativo come i rituali cattolici non sono più in grado di essere. Gli Hindu sono felici, nonostante il pessimismo cosmico che pervade questa religione. L’induismo dice che ogni vita è sofferenza, indistintamente, e il fedele non può che accettare questo dolore con gioia e senza aspettative nel confronto del futuro. E la vita c’è nelle offerte quotidiane che si fanno nelle case. Come fa ogni giorno la mamma di Nandan, e come fa ogni giorno il figlio piccolo, che, come improvvisando un gioco fatto di incensi e fiori, prega al dio Shiva che tutto distrugge. Durante il mio soggiorno a Varanasi Nandan viene anche chiamato da un amico per fare delle foto ad un rituale privato che un Baba sta facendo nella loro casa: è un momento importante per la famiglia perché, dopo tante preghiere, finalmente il figlio tanto atteso è arrivato e l’occasione merita di essere immortalata da fotografie ma la famiglia non ha la macchina fotografica. Nandan manda me a fare da fotografo e mi ritrovo su un pavimento di una bettola piena di piatti di frutta e fiori sistemati accuratamente in disegni geometrici, con un prete vestito di bianco che pronuncia formule complesse versando acqua e latte sulle mani dei presenti.

La vita l’ho vista anche in un Baba, amico di Nandan, che siamo andati a trovare un pomeriggio nel suo monastero lungo il fiume. Lui si chiama Lali Baba ma dice di avere altri 46 nomi (tra cui internet baba, funny baba, msn baba, facebook baba). Lali Baba è qualcosa d’inspiegabile, è un ciarlatano ma allo stesso tempo un guru. Il suo piccolo monastero è affollato di fedeli che lo seguono e gli baciano i piedi, compiendo i rituali in alcune piccolissime stanze profumate di incenso e candele, tra le più suggestive mai viste nella mia vita. Lali Baba è un ciarlatano, perché chiede soldi a tutti, passa molto tempo a chattare sul web, mostra a tutti le foto che giornali di tutto il mondo gli hanno fatto. Lali Baba è un ciarlatano perché con suo fratello l’anno scorso ha stuprato una ragazza che è finita in coma quando è stata abbandonata, dopo percosse ripetute, su un Ghat lungo il Gange. Ma Lali Baba è anche un santo, come nei migliori ossimori di questo paese, in primo luogo perché ha l’aspetto da santo. Non si taglia barba e capelli da dieci anni e ora la sua capigliatura è un accrocchio di dread locks informi e sporchi. Lali Baba si cosparge ogni giorno il corpo con cenere proveniente dalle cremazioni che avvengono sotto la sua supervisione sul suo Ghat e ogni sera, con una cerimonia che dura un’ora, si mette addosso quasi 400 collane e gioielli che piegano la sua schiena fragile e arrossata facendo risaltare ancora di più la sua pancia enorme e gonfia. Lali Baba è un santo perché la gente gli crede: indiani, soprattutto, e non indiani vengono da tutto il mondo per prostrarsi ai suoi piedi e chiedergli qualcosa. Un rito, una magia, un pensiero, una preghiera. E Lali Baba aiuta tutti, in cambio di poche rupie. Lali Baba è un santo perché sa prendersi in giro e sa prendere in giro, seduto sul suo trono tra due teschi umani recuperati da cremazioni non del tutto avvenute. Una sera ci sediamo tra i fedeli di Lali Baba a vedere il suo Aarti, uno spettacolo indimenticabile! E Lali Baba mi ha anche promesso di aggiungermi come amico al suo profilo di Facebook! (ormai lo sono da diversi anni e giornalmente mi invia richieste di ortaggi a farmville o cityville altri giochi on line, alternando sul suo profilo benedizioni generiche e fotografie di belle ragazze).

Ma a Varanasi oltre alla vita c’è soprattutto la morte: per gli Hindu morire qui, farsi cremare qui e spargere le proprie ceneri nel Gange aumenta le possibilità di Liberazione dal ciclo delle rinascite. Così le strade sono invase da moribondi e malati, i Ghat sono pieni di gente che dorme chiudendo gli occhi e pregando di non riaprirli più. Molti sono i suicidi, molte le persone disposte ad uccidere chi lo desidera, in cambio di denaro. Ogni persona che viene qui a morire ha le tasche piene di soldi per le costose cremazioni, per evitare di essere bruciati frettolosamente senza che tutto il corpo, nelle tre ore richieste, venga ridotto in cenere (per un’ottima cremazione serve un’ottima legna). E tutti questi malati creano malati. E così la città si riempie di ospedali e luoghi di cura. Con Nandan visitiamo la casa di Madre Teresa, piena di malati mentali, storpi e menomati. I pazienti ci guardano con rispetto, baciandoci i piedi e facendoci il segno di saluto con le mani in segno di preghiera. In un altro momento andiamo in un lebbrosario, nel monastero che ha curato più malati di lebbra di tutto il mondo (è nel Guinnes World of rRcords, come testimonia una targa che trionfa tronfia nell’ufficio del direttore). Decine di letti sporchi e scuri di malattia e medicamenti ospitano persone senza mani o dita o piedi o con il corpo rovinato dalla lebbra. Un medico mi spiega come funziona il centro, ma io ho la testa un po’ nel pallone e ascolto poco. Il centro è gestito dagli Aghori, una setta hindu dedica al culto di Shiva. Nel loro tempio di Varanasi, la cui porta è introdotta da riproduzioni di teschi, c’è la legna delle cremazioni che brucia un fuoco sacro circondato dai tridenti del dio sporchi di fumo. Gli Aghori sono noti in tutto il mondo per essere una setta cannibale, distruttrice e necrofila; secondo gli appartenenti a questa setta tutto ciò che è sporco, basso, intoccabile serve, nel ciclo rotondo delle cose, a portare alla purificazione totale, e così gli Aghori si buttano in sesso sfrenato, alcol, droghe, uccisioni e molto altro. Oggi le cose non stanno più così da tempo, la setta si dedica a beneficienza e azioni altruiste, ma sicuramente sono sacerdoti diversi da quelli delle altre sette hindu. Tra gli Aghori però ci sono ancora dei pazzi. Nandan mi ha confessato che per un lavoro che fece per la CBS questi gli chiesero di trovare un Aghori cannibale e, per pochi soldi, aveva trovato un monaco outsider capace di mangiare un cadavere. Per il corpo non c’erano problemi, i Dom, gli intoccabili addetti ai funerali, buttano nel Gange senza cremare i corpi dei morti non riconosciuti dai parenti entro due settimane. Alla fine la CBS decise di non girare il caso, ma durante l’ultimo Khumba Mela, la grande festa che si tiene ogni dodici anni in India, una troupe di MTV USA filmò, senza mai mandarla in onda, una scena lungo il Gange ad Haridwar in cui un bambino Aghori di dieci anni divorava la gamba di un cadavere dopo essersi scolato una bottiglia di whisky. Ma oltre alla gente che cerca di morire per caso c’è gente che vuole morire con coscienza, passando l’ultima delle quattro fasi della sua vita a Varanasi in un monastero dove si vive per morire. Ce ne sono decine ma noi ne visitiamo solo uno, vicino ai Ghat più a sud. La gente viene qui una volta che ha compiuto i suoi doveri di marito e padre (si parla solo di uomini naturalmente), maritando tutte le figlie e assicurando ai figli maschi un’eredità. Una volta qui ci si spoglia di tutto, si veste solo un cencio, rigorosamente arancione, colore hindu, e ci si prepara ad una vita fatta di niente, cercando di raggiungere la morte tra sofferenze e privazioni, per avere una prossima vita migliore o per non averla proprio. Chi vive in questi monasteri è obbligato a ripetere migliaia di volta al giorno un mantra ben specifico, consegnato da un Baba anziano, e non può avere né proprietà né lavoro e deve procurarsi il cibo mendicando. Dentro al monastero ci fermiamo a parlare con un vecchio. Ha ottant’anni ed è disteso quasi nudo su un asse di legno sotto una tettoia, questa è la sua casa da trent’anni, da quando ha deciso di trasferirsi per sempre a vivere a Varanasi aspettando la morte. Trent’anni e ancora non è arrivata. Ci dice di pregare ogni giorno per avere una morte, ci racconta della sua condizione, ci dice di essere felice. E gli credo. Nonostante non abbia niente, se non la sicurezza di avere più facilità nel raggiungere l’Infinito.

Ma la morte è soprattutto cremazione a Varanasi. Qui, quando le persone muoiono, vengono trasportate ai Ghat su lettini di bamboo in vendita ovunque per le strade, come le gondole in miniatura nelle calli di Venezia. Il corpo è avvolto in un sudario e viene posto, dopo essere stato bagnato nel Gange, su una pira di legname (la legna riempie Varanasi, cataste di legna ovunque). Dopo di che il figlio maggiore, che si è rasato i capelli, prende il fuoco da un Dom e accende la pira. Ci vogliono tre ore perché il corpo bruci completamente. Il mio primo incontro con la cremazione avviene la mattina in cui prendiamo la barca per visitare i Ghat. Attracchiamo ad una scalinata nera di fuliggine e cenere versata nel fiume. Saliamo e ci troviamo sulla piattaforma dove avvengono le cremazioni. Non ci sono funerali in corso, ma la legna al centro della piattaforma continua a bruciare rossa di fuoco coperto da cenere. Sono diversi i turisti che arrivano qui la mattina in pullman organizzati e i Dom, i veri ricchi di Varanasi, cercano di spillare qualche soldo. Questi intoccabili sono persone senza scrupoli e senza valori, quasi sempre ubriachi di whisky e morte. Tra la legna che brucia ci sono tre cani. Cercano qualcosa da mangiare. Uno trova un legno su cui è rimasto attaccato un pezzo di cadavere. I cani si litigano la carne strappandola a morsi dal ciocco ancora caldo. Vince il più forte. Ai luoghi di cremazione ci torno anche più tardi, quando da una piattaforma poco sopra le pire vedo un fuoco appena acceso. Il sudario brucia immediatamente e sotto lascia intravedere la faccia di una persona grassoccia. In poco tempo il busto è in fiamme e le gambe si staccano dal corpo. Questa è una fortuna, mi dice Nandan, perché spesso la pelle si raggrinzisce e tira le gambe e le braccia che sembrano alzarsi, costringendo i Dom a dare colpi con dei legni per rompere le articolazioni. Il fumo che sale odora di arrosto e di cucina. Capisco perché gli hindu sono in prevalenza vegetariani.

Prima di partire passeggio da solo per le strade, cercando di memorizzare per sempre le immagini di caos e calma, l’umido sulla pelle, il viscido del terreno, il sapore caldo dell’aria densa di odori. La vita e la morte. Come in un ciclo completo di rinascite. Fino alla Liberazione.