
La tastiera è unta di burro di yak e l’aria è quella rarefatta dei tremila metri d’altitudine. Al collo penzola una collana tibetana e accanto a me un monaco in tunica arancione e rossa visita un sito pieno di immagini religiose.
Siamo partiti all’alba da Lanzhou, dopo un piccolo volo interno da Xian. Abbiamo preso un vecchio bus scassato che raccoglie per strada gente per piccoli o lunghi tratti e abbiamo traversato il Gansu, regione a maggioranza mussulmana. Il viaggio è stato difficile e travagliato: dopo qualche ora eravamo fermi in una rimessa in un posto qualunque sulla piantina. Passa mezza giornata prima di poterci rimettere in viaggio. E mancano ancora molte ore. Senza aria condizionata, i sedili lerci, pochi posti e niente bagagliaio (gli zaini finiscono sul tetto). Anche gli ammortizzatori non vanno tanto bene, e il sovraffollamento dovuto alla enorme quantità di gente che viene tirata su per strada non aiuta di certo il motore che arranca piano piano.
Ma il paesaggio è stupendo.
La Cina mussulmana lascia il posto ai campi e alle colline fino ad incontrare i monti. L’etnia prevalente è quella tibetana, cambiano i visi, gli occhi si allargano e i vestiti si fanno più colorati e pesanti.
Siamo ormai alle pendici dei monti del Tibet quando l’autobus si ferma. Una scritta in cinese indica il nome del paese: Xia’he, il più grande centro di preghiera tibetana dopo Lasha. Le strade brulicano di monaci e di fedeli che si buttano a terra per genuflessioni e preghiere. Al centro del paese il monastero, circondato da un giro lungo tre chilometri di rotoli di preghiera da far girare (in senso orario) per lanciare al cielo la propria fede. Pochissimi turisti. Un freddo cane. Basta però un primo sguardo per capire che tutta la fatica fatta per arrivare fino a qua è ottimamente ripagata.
In serata mangiamo in un ristorante tibetano dove proviamo la carne secca di yak, quella bollita, il formaggio di yak mescolato con il burro di yak e l’orzo, il riso con lo zucchero e il burro fuso di yak sopra… insomma cucina di montagna. Il pasto si conclude con un tè, alla maniera tibetana: allungato con burro di yak.
Il giorno dopo sveglia di buon mattino, quando ancora il freddo ti entra nelle ossa e la bruma non ha lasciato il posto al sole. Sterminate distese di verde, prati costellati di fiori di montagna (tra cui stranissime stelle alpine), qualche animale e molta umidità. Ci facciamo accompagnare da un ragazzo del paese tra i villaggi di fango e pietre: poverissimi ma molto dignitosi.
Passiamo anche da due piccoli monasteri, uno di monaci Han e uno di suore (monache tibetane col capo rasato). Tutti gentilissimi ci aprono le porte dei loro templi e ci fanno passeggiare tra le statue dorate e le candele di burro di yak.
Mentre torniamo il ragazzo mi parla dei medici tibetani che curano i pazienti nel monastero, mi racconta delle loro tecniche di diagnosi e guarigione, dell’organizzazione sanitaria locale. Così, una volta a Xia’he, decido di far visita ad un monaco. Entro in un edificio fatiscente dove in una stanzetta aspetta questo vecchietto seduto a gambe incrociate avvolto nel suo mantello rosso. La medicina tibetana si basa sulla pressione delle linee vitali del polso. Mi visita in pochi secondi, schiacciando tre dita sopra le vene del polso. Biascica parole strane e un ragazzo che parla inglese che mi accompagna mi chiede se ho la tosse. Effettivamente il giorno prima ne avevo avuta un po’… E così mi prescrive delle erbe che acquisto e che porterò in Italia.
(In realtà non ho mai avuto il coraggio di mescolarle nell’acqua e ingurgitarle, forse mi avrebbero guarito per sempre da qualsiasi male, o forse no).
Posted on 13 gennaio 2012
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